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<<SUL DIALETTO: è "lingua"?>>

Antonio Lubrano, da "Il Mattino" del 21 gennaio 2004 nell’articolo "Il dialetto napoletano fuori dell’Università"  Macchè, corsi e ricerche provano il contrario". Ecco la risposta.
Mi corre l’obbligo di ricordare che il lettore Carlo Silvestri si è limitato a riferire di un articolo apparso su "Avvenire" e mi pareva sinceramente rammaricato dalla notizia letta sul quotidiano cattolico di Milano. Dunque, non è vero che il dialetto napoletano sia stato espulso dalla ricerca universitaria e dalla "Federico II". Meno male! Lo testimonia il prof. Nicola De Blasi, a cui era stata attribuita una dichiarazione stravolgente. L’occasione, tuttavia, mi consente di richiamare un elemento di preoccupazione più vasta che riguarda il valore dei dialetti in genere.
Anni fa, in occasione di una delle tante riforme della scuola, annunciate e poi abortite, ci fu un glottologo che parlò di "scuola del silenzio". Alle elementari, sosteneva, i ragazzi provenienti dalle borgate o dai quartieri periferici, dove la prima forma linguistica di comunicazione era, e forse è ancora oggi, il dialetto, vengono spesso emarginati: temono di esprimersi in dialetto, mal visto dagli insegnanti92, e non capiscono l’italiano e la più parte delle parole italiane. Sono condannati appunto al silenzio. Se invece – proponeva un altro studioso – dalle forme dialettali si aiutasse l’alunno a passare alla lingua nazionale, a scoprire, cioè, l’italiano e la sua ricchezza lessicale?
La mia esperienza sul finire degli anni quaranta come studente del “Giambattista Vico” di Napoli mi permette di citare un supplente di italiano, il prof. Ferrante, mai dimenticato, che al ginnasio e al liceo (quindi non alle elementari) ci aiutava ad amare il latino e il greco partendo dal napoletano. Ora lei, prof. De Blasi, scrive anche nella sua lettera, purtroppo non riportata integralmente, che l’attenzione al dialetto – il dialetto come tramite, certo, non come nostalgia – è suggerita dai programmi scolastici vigenti. Ma siamo sicuri che il suggerimento viene sempre ascoltato?
Io temo di no! Ed è un peccato.

 

Da un articolo di Gianni Infusino
<<IL DIALETTO COME RICERCA>>

Il discorso sul dialetto è lungo ed impegnativo, richiederebbe analisi che non è qui il caso di affrontare, evoca problemi risalenti al periodo fascista (…il “voi”), allorché il regime bandì dalle scuole e dalla cultura (nazionale?) le letterature regionali, provvedimento che fece scendere un velo di oblio su molti scrittori e poeti (in vernacolo?). E’ questo uno dei motivi per cui oggi nelle nostre università mancano specialisti del dialetto e di molti autori non parlano, se non per vaghi accenni, neppure le storie della letteratura. Il dialetto napoletano non sfuggì a questo retaggio, anzi ne paga le conseguenze maggiori restando escluso persino dalle antologie dialettali che di tanto in tanto qualche coraggioso editore pubblica. Per tutte queste ragioni, un’iniziativa sul tipo di quella di cui ci accingiamo a parlare merita non solo di essere sottolineata, ma può rientrare, trattandosi di una pubblicazione non venale, nel campo della bibliofilia.
Un poeta napoletano contemporaneo che da anni si stacca dalla pletora degli improvvisatori per serietà di studi e che pubblica di tanto in tanto versi di cui si può tener conto, Raffaele Pisani, ha dato alle stampe, sostenendone in proprio le spese, un volumetto di una ottantina di pagine intitolato “Poesie napoletane per le scuole elementari e medie”.
Il Pisani non si  limita, avendo fatto del volumetto una distribuzione gratuita nelle scuole di Napoli e provincia, a proporre ai ragazzi soltanto le sue poesie, ma correda ciascuna di esse di una scheda di ricerca che offre spunti di riflessione sugli argomenti trattati nella pubblicazione. Sapranno, gli insegnanti soprattutto, far tesoro di questa singolare iniziativa di un appassionato? L’interrogativo meriterebbe una risposta positiva, ma temiamo che il libretto finirà nel dimenticatoio e non costituirà l’inizio di un’era nuova per il nostro dialetto.
Aspettiamo smentite.

 

<<CAV. GIO. BATTISTA BASILE>>

Il dialetto Napoletano fu per avventura, il più antico de’ dialetti d’Italia, e la più vetusta Cronica Istorica, che ci resti è il Diurnale di Matteo Spinelli, scritto in volgare Pugliese: giacché dappoi scostandosene que’ di Puglia, il detto volgare divenne il dialetto di Napoli. A ciò si arroge che trovansi molte voci di cotal dialetto negli antichissimi Toscani Rimatori, cioè in Fra Guittone, in Brunetto Latini e nello stesso Dante. Quest’ultimo in parlando della volgare Eloquenza dà il primato al nostro dialetto dopo quello di Sicilia. Boccaccio in una sua Epistola a Francesco de’ Bardi sotto il regno di Giovanna I adopra il volgare Pugliese.
Alfonso I di Aragona, il più grande de’ nostri Re, volle che questo dialetto fosse la lingua nobile della nazione. Infatti tutti gli ordini, i giuramenti di fedeltà, i diplomi furono scritti in quest’idioma, e ciò si sostenne sotto la Dinastia Aragonese per lo spazio di 112 anni, cioè dall’anno 1442 fino al 1554. E se non fosse stata la biasimevole incuria degli Scrittori Napoletani, che si volsero dal decimoterzo secolo fino al decimosesto o a scrivere in Latino o ad imitare i Toscani, disprezzando il nostro bellissimo volgare, egli sarebbesi elevato, forse, a quella sublime altezza a cui aggiunger fu dato al solo dialetto di Toscana. Ma pure Sannazzaro aveva in esso scritto una farsa intitolata lo Gliomero, che è stata perduta. Noi avremmo ritrovata in lei la prima Opera buffa rimata, ed è ben condannabile la non curanza de’ suoi contemporanei nel non averla conservata dal tempo divoratore. Il Governo Vice-Regnale, che tanto nocumento fece alla nostra Nazione distrusse l’uso del nostro dialetto nelle pubbliche carte, sostituendovi in sua vece lo Spagnuolo. Eppure qual più nobile volgare di questo poteva eleggersi? Un’Opera del mio dotto amico il Duca Tommaso Vargar Maciucca (della quale tutti i conoscitori delle buone lettere e que’ che sono teneri della nostra gloria, affrettano la pubblicazione) dimostra che moltissimi vocaboli che sono in bocca della nostra più bassa plebe traggono la loro origine da altri simili vocaboli dell’antica Greca lingua.
La imitazione degli Scrittori Toscani ci trasse a porre in non cale questo nostro dialetto pieno di bellezze spontanee. Perciò il valoroso Niccolò Capasso, scrivendo a Muzio de Majo così canta (Iliade di Omero ridotta in Napoletano).

Vide co ppena (ca lo genio è buono)
Ca va la lengua nosta arreto a tutte,
E cca li Tosche se so ppuosten ntuono
E benneno  pe ncienzo anfi a li grutte:
Quanno, Ddio razia, avimmo tanto suono
Tanta dolgezza dinto a sti connette
Che ssenza troppo spremere le dammo
Le base patte vente, e l’annegliammo.

Ma noi abbiamo divagato finora per soperchio amore di patria dal nostro subietto, che è quello di scrivere la vita del Basile. Buono per noi che la assoluta scarsezza in cui ci troviamo di memorie per intesserla ci garantisca dal rimprovero de’ nostri Leggitori per esserci allontanati con una digressione dal nostro oggetto principale!
Nulla si sa dell’anno in cui nacque il Cav. Gio. Battista Basile, né quello in cui morì. Solo possiamo asserire esser egli stato di nobilissima famiglia napoletana, Cavaliere, Conte di Torone, ed intimo familiare di Ferdinando Gonzaga Duca di Mantova. Fiorì senza alcun fallo nella fine del Secolo XVI. Fu ascritto all’Accademia degli Oziosi, tanto celebre in quel tempo. Fu amico di Giulio Cesare Cortese, altro de’ più celebri Poeti del nostro dialetto.

  • Ecco il catalogo delle sue opere.
  • Il pianto della Vergine. Napoli, 1608, in 12.
  • Li Madrigali e le odi, Napoli, 1609, in 12.
  • Osservazioni intorno alle Rime, et con la varietà de’ testi nelle rime del Bembo. Napoli, 1618, in 8.
  • Le avventurose disavventure in 12.
  • Egloghe amorose e lugubri. 1608, in 12.
  • Venere addolorata. 1608, in 12.
  • Epitalamio alla Reina d’Ungheria. Napoli 1630, in 4.
  • Le Muse Napoletane Egroche, Napoli, 1635, in 12.
  • Lo cunto delli cunte ovvero lo trattenimento delli piccirilli. Napoli, 1637, in 12.

Tralasciando di favellare delle sue opere scritte in Toscano nelle quali egli mostrassi più che mediocre Poeta, noi ci contenteremo di esporre brevemente i nostri divisamenti su quelle, ch’egli scrisse nel dialetto Napoletano, poiché queste gli meritano sole de’ diritti alla fama.
Il Basile volle fare nel nostro dialetto ciò che Boccaccio aveva fatto nel Toscano, e compose la celebre opera intitolata, Lo cunto delli Cunti, pubblicandola sotto il nome finto di Gio. Alessio Abbattutis. Egli vi accozzò Racconti di Fate e dell’Orco, superiori forse a quelli inventati dagli Arabi in simil genere. Vi si rivela molta fantasia ed una minuta contezza di tutte le voci de’ proverbi, e de’ modi di dire Napoletani.
Noi rimprovereremo al Basile la contraffazione del periodare del Certaldese, e l’uso soperchio delle metafore e de’ bisticci, benché nelle sue Egroche lo stile sia più naturale e spontaneo. Ma ciò ch’è più condannabile è, ch’egli il primo introdusse nel nostro dialetto il gusto delle sporchezze. Noi per rimbeccare coloro, che pretendono in ciò consistere la sua principal venustà, riferiremo i sensi dell’ingegnosissimo Galiani. (V. il Dialetto Napoletano).
“Il nostro dialetto fu deturpato da stomacose e schifose immagini o di escrementi o di malori atte assai più a nauseare che a far ridere. Questo abominevole gusto introdotto dal Basile, e perpetuato in tutti gli Scrittori posteriori, senza che neppur uno se ne sia saputo preservare, ha finalmente in oggi inondata e soggiogata la scena del Teatro Comico Nazionale. Vediamo noi rappresentarsi Drammi, che sono in ogni scena una non interrotta serie di lepidezze di sterquilinio, di scherzi di doach, e di sali escrementizi: e la nazione intera e la più seria e costumata gente vi si è avvezza tanto, che non ne sente più la schifezza”.
Leggesi l’Elogio del Basile nell’opera intitolata: Elogi degli Accademici Incogniti, pubblicata in Venezia. Onorata menzione ne fecero fra’ Scrittori Italiani Mazzucchelli, Crescimbeni, Toppi, Nicodemi, ed il P. Quadrio. Ma essi si contentarono per mancanza di memorie, di fare il Catalogo delle opere che di lui si veggono a stampa.
Lo Cunto delli Cunti ha fornito al Lippi il soggetto del suo tanto celebrato Poema Toscano Eroicomico il Malmantil, e recentemente l’immortale Wieland in Germania, ne ha tratti, vestendoli coll’incanto del suo stile, parecchi de’ suoi Racconti.

 

IL DIALETTO
Una traduzione letteraria di 8 secoli:
TUTTE LE LINGUE DELLA CAMPANIA

Abbiamo letto <<Profilo linguistico della Campania>> del Chiarissimo prof. Nicola de Blasi, Ordinario di Linguistica italiana alla Federico II di Napoli. Ne siamo timasti affascinati per i contenuti, la modernità del linguaggio, l’attualità dei dialoghi, specie giovanili, e la perizia e l’impegno certamente profusi nell’opera.
Alcune sue affermazioni/considerazioni sono da noi perfettamente condivise e riteniamo molto valida quella che i Campani non parlano tutti allo stesso modo.
Da chiunque possono essere riscontrati con facilità le differenze sostanziali le attuali “parlate” comune “delle varie zone (Benevento/Avellino, Salerno/Napoli, Caserta).
Esistono, infatti, evidenti diversità foniche, grafiche ed etimologiche, di uno stesso termine tra queste aree regionali.
Tali diversità linguistiche non si riscontrano solo nelle gradi aree regionali ma anche in territori di una stessa area e tra zone di uno stesso territorio.
Come avviente, infatti, nel territorio della provincia di Caserta ove vengono parlati dialetti diversi per fonìa (alitano, casertano, maceratese, marcianisano, ecc.) e per etimologia.
In Campania, quindi, non si parla certamente solo il napoletano!  Nella Regione, infatti, le varianti linguistiche sono tante e riconducibili alle parlate comune in uso nelle grandi città, sì, ma con, a volte, molto evidenti ed importanti per le motivazioni che le determinano.

 

IL DIALETTO SI IMPARA A SCUOLA?

I Campani, secondo De Blasi, e anche gli abitanti della provincia di Caserta, secondo noi, non parlano tutti allo stesso modo: nelle diverse realtà alcuni parlano prevalentemente il dialetto (con le proprie peculiarità zonali), che ancora per molti è <<prima lingua>>, mentre altri,  per motivi diversi sono esclusivamente italofoni e hanno del dialetto una competenza passiva:

<<tra i giovani italofoni che raggiungono ‘istruzione secondaria, tuttavia, il dialetto può essere acquisito in un secondo momento, spesso proprio nel contesto scolastico, dove è preferito come lingua della comunicazione informale tra giovani coetanei. Il recupero del dialetto come seconda lingua (sia pure con competenza parziale) anche da parte dei giovani nati da genitori italofoni è di per sé un altro segno vistoso della vitalità spontanea del dialetto o ”parlata comune”.
Il dialetto entra, quindi, tra le opzioni comunicative di giovani adolescenti e cercano forme e parole come variazione rispetto all’italiano (peraltro non sempre compiutamente dominato, in specie nelle sue manifestazioni scritte).>>

Nel presente manuale sul dialetto maceratese abbiamo, con le nostre argomentazioni e la presentazione di prove bibliografiche testimoniali, tentato di affermare proprio questo principio del prof. De Blasi:
“la vitalità spontanea del dialetto o parlata comune.”

<<KOMENEI FANGVAM>>

Pasquale Capuano

 

CONSIDERAZIONI FINALI DELL'AUTORE

Ci preme, a chiusura di questo nuovo lavoro, dire al lettore che, come prima detto nei paragrafi che compongono il testo, abbiamo seguito il nostro solito “modus operandi”: ricerca, analisi e sintesi. Abbiamo, come sempre, letto più di un autore e valutato quanto nei loro testi affermavano; li abbiamo comparati e cercato le loro convergenze sugli argomenti, che interessavano questo nostro testo.
Abbiamo comparato anche ogni termine ritrovato nel nostro territorio con i segni alfabetici e ortografici dei dialetti delle origini ( vicino al territorio capuano antico), proiettandone gli etimi (anche di origine etrusca, umbra, greca) sulla grafia e sonorità dell’odierno dialetto maceratese. Vero è che noi avremmo potuto servirci di uno dei tantissimi dizionari del dialetto napoletano, esposti anche negli stands dei supermercati, ma la nostra indole non ce lo ha consentito.
Sappiamo, perciò, di correre l’alea di risultare ripetitivi per qualche definizione etimologica. Il nostro lettore ci perdoni e sappia che la nostra naturale disposizione psicologica all’indagine e allo studio in genere, ci porta a risultati che noi amiamo definire personali, originali e, consequenzialmente, incontrovertibili.
Questa affermazione non è frutto di una negativa presunzione, ma frutto della consapevolezza di essere nel giusto e di avere operato, come sempre, con animo umile e disponibile alla critica costruttiva.
Sempre convinti della bontà del nostro operare diciamo con Cicerone:
<<Defendat quod cuisque sentit;
sunt, enim, iudicia libera.
Nos, quid maxime verum nobis paruit,
requisivimus>>
.

 

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92 Nella nostra esperienza di docente delle scuole elementari, noi invitavamo gli alunni ad esprimere i loro pensieri e sentimenti con il dialetto, data la difficoltà della trasposizione nella lingua italiana, in quei primi anni di scuola. Allo stesso modo ci esprimevamo in dialetto quando si verificava la possibilità di non capire da parte dell’alunno.

 
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